Bacchette Magiche e Parole Perdute

Bacchette Magiche e Parole Perdute

Nella saga de Il Signore degli Anelli, il vecchio mago Gandalf incorpora nel suo nome il termine norreno gandr, bastone.

Da Merlino alla Fata Madrina, non c’è esperto o apprendista delle arti magiche che non tenga sempre con sé la sua bacchetta.

Quest’oggetto di potere, in quanto di autoaffermazione e, contemporaneamente, di grande umiltà, perché chi lo utilizza ricorda a se stesso della sua necessità di appoggio, quest’asta di trasformazione, non è stata relegata nei secoli solo al mondo fantasy.

La bacchetta magica è stata verga, scettro, scopa (per spiccare il volo o per scacciare sporcizia e polvere, riportando alla luce l’essenziale ripulito, entrambi atti di infinito potere), bastone del rabdomante, stampella dei viandanti.

Tiresia, Mosè, Circe, ogni imperatore del passato: sconfinato sarebbe l’elenco completo del nostro immaginario, se dovesse comprendere tutti i personaggi quasi tutt’uno con il loro bastone.

È il Libro Giurato di Onorio, anno del Signore 1200, a parlarne per primo esplicitamente, ma la genesi del bactròn in greco, e del baculum in latino, si perde nella notte dei tempi.

Nello Zoroatrismo, la bacchetta fu tramandata come un oggetto sciamanico, proveniente a sua volta dalle tradizioni siberiane e del mondo indo-iraniano: un’estensione profonda dell’atto di volontà, guidato da un alto ideale nel cuore e, nel suo evidente simbolismo maschile, capace di fecondare il mondo astrale. E fu da lì che i Re Magi la condussero fino a noi.

Non diventerà di metallo fino a tempi relativamente recenti, perché è sempre stato il legno ad accompagnare la sua tradizione. Il legno come conduttore, come arto ancora vivo e traboccante di linfa, il quinto elemento che in Oriente ha a che fare con l’entusiasmo, la vitalità, la volontà e la progettualità.

Secondo la chiave di Salomone, per difendere queste forze dell’anima, bisognava stringere nella mano destra un ramo di Alloro, capace di allontanare gli spiriti disturbanti perché pianta “piena di fuoco”.

Le leggende narrano che la bacchetta di Merlino fosse invece di Nocciolo, pianta che, insieme al Sambuco, fu l’essenza più utilizzata. Stringere forte nel proprio pugno la bacchetta magica porta in evidenza le nocche della mano.

Non a caso, le nocche, il nocchiero, il bussare per oltrepassare una soglia (in inglese l’onomatopeico knock) sono tutte parole collegate proprio al Nocciolo: insieme già creano un’atmosfera di suggestivo preludio incantato.

Anche l’Acacia, il Mirto, l’Ontano, il Sorbo, i fuscelli di Melograno e di Tamerice erano legni impiegati per ricavare le bacchette magiche. Senza entrare nei dettagli di ogni specie, le caratteristiche botaniche comuni a tutte queste piante sono flessibilità e resistenza.

Gli stregoni, per essere definiti tali, non potevano fare a meno di queste due qualità.

Il nome inglese del Salice -altro albero di lunga tradizione magica e stregonesca- è Willow. La parola ci si apre tra le mani come uno scrigno: saltellando sul suo etimo, caschiamo su wizard, oggi tradotto proprio come mago o stregone, ma che ancor prima, nella tradizione linguistica, si rifaceva a wize, saggio.

Giocare con le parole ha sempre un fascino ipnotico e caleidoscopico.

Qualche anno fa, mia figlia di otto anni mi chiese: “Mamma, come hanno fatto le persone a dare un nome alle cose? Come hanno deciso, ad esempio, che la parola giusta per la sedia era sedia?”.

“Questa è una buona domanda, Emma”, risposi.

Ne sono ancora convinta.

“Gli antichi non pensavano: percepivano”, così mi rispose il mio professore di medicina spagyrica quando gli girai la stessa domanda di mia figlia.

“Sintetizzavano in un suono l’essenza della manifestazione, della realtà, e ne rispettavano la vibrazione. Il movimento delle labbra, della gola, della lingua, traduceva in un sol colpo l’utilità dell’oggetto e il suo scopo riferito all’essere umano, compreso il mistero che spesso lo avvolgeva. Ad esempio, prova a pronunciare la parola enigma: c’è uno scalino, tra quella g e quella m. Uno sforzo che devi fare per arrivare alla fine della parola, un punto in cui ti devi fermare per poterti raccogliere. Il fuoco dei fulmini, così diverso dal piròs domestico, era ignis, ig-neo: lo stesso scalino, lo stesso mistero.  L’umanità come la conosciamo oggi non sarebbe in grado di coniare le parole, è una di quelle facoltà ormai perdute, smarrite quando l’uomo ha creduto di sapere ormai tutto”.

Il linguaggio è un’arte collegata alle bacchette e ai bastoni, alle formule magiche, alla liberazione delle energie e delle impressioni che ci arrivano da fuori e che ci nascono da dentro.

Come altrimenti definire parole e alberi, se non come antenne connesse al cielo e al mondo delle idee, ma anche la nostra messa a terra, per radicarci e fissare quel pulviscolo che altrimenti mai smetterebbe di vorticarci tra sangue e respiro.

Cosa cerchiamo da millenni, se non la vita stessa, fatta non solo di sopravvivenza ma di continui prodigi e di interconnessione tra il nostro mondo e gli infiniti altri universi viventi?

Chiamarsi per nome: è questa la prima forma di contatto, di intimità, di vera magia. I più grandi miracoli, come i maghi di tutte queste leggende ci suggeriscono, accadono proprio quando finalmente, dopo mille sforzi, troviamo le parole giuste.

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